Fashion Design Lab Magazine
ottobre 2008 | nº 00
  L'uomo che doveva uccidere Mao Paola Sechi
 
   


Barbara Alighiero, sinologa, laureata a Roma in Storia della Cina, dove ha vissuto per vent'anni in tre periodi diversi, fino al 2001, come responsabile dell'ufficio Ansa, è stata inviata in Afghanistan e Medio Oriente e capo dell'ufficio Ansa del Cairo. Attualmente è direttore dell'Istituto Italiano di Cultura a Pechino.
Per comprendere fino in fondo la vera essenza del titolo "L'uomo che doveva uccidere Mao", primo libro di Barbara Alighiero, è indispensabile leggerlo tutto d'un fiato, senza saltare neppure una riga.

"L'uomo che doveva uccidere Mao" ti coinvolge già a partire dal modo in cui vengono presentati i personaggi, e via via, fino ad arrivare alla dedica finale dell'autrice, passando per quel susseguirsi di accadimenti, emozioni ma anche di forti sentimenti, che culminano con la drammatica condanna a morte, risultata in seguito l' unica eseguita nei confronti di stranieri durante il regime di Mao, del mercante d'armi italiano Antonio Riva e dello studioso giapponese Ruschi Yamaguchi, accusati del più grande complotto politico ai danni del capo dello Stato Mao Ze Dong.

La vicenda, realmente accaduta e pressoché sconosciuta a molti italiani, è ambientata nella Cina degli anni '50. Antonio Riva sposa a Pechino la statunitense Catherine, anche lei residente in Cina da anni. Da questo matrimonio nascono due figli. Con il passaggio dalla Monarchia alla "Repubblica" di Mao, numerosi esponenti della comunità straniera residente in Cina, abbandonano, loro malgrado, il paese trasferendosi nella vicina Hong Kong, piuttosto che Taiwan o addirittura facendo rientro nelle proprie terre d'origine. Altro tipo di decisione viene presa dai protagonisti, tra i quali anche un prete cattolico, ognuno con le proprie motivazioni (questioni economiche, legami professionali, missioni politiche), ma accumunati dalla speranza che l'avvento di un nuovo governo non possa che essere migliore del precedente. Al termine di una lunga sorveglianza Antonio Riva viene arrestato ed insieme a lui Yamaguchi, monsignor Martina e Cao Chunzhi. Durante la detenzione gli sventurati conoscono da prima gli estenuanti interrogatori della polizia locale sorta sotto il governo di Mao, per passare poi alle tremende ed interminabili torture subite all'interno del carcere per concludersi con il tragico epilogo: la fucilazione di Riva e Yamaguchi. E' proprio in questa fase che il pensiero di Riva è rivolto principalmente alla famiglia, fino all'ultimo istante di vita, alla moglie ed ai figli, che poi giungeranno in Italia, per non far più ritorno in quella che comunque rimane almeno nei loro cuori la Cina dei loti bianchi e rossi e la terra dei melograni.

L'autrice riporta testualmente ciò che è ufficialmente pubblicato, dagli articoli di giornali locali dell'epoca ai verbali della polizia locale, dalle lettere delle persone coinvolte in questa assurda vicenda alle testimonianze di amici e parenti delle vittime.
Un vero e proprio susseguirsi cronologico di eventi che porterà Antonio Riva ad essere vittima, suo malgrado, di un gioco più grande di lui dal quale ne uscirà solo confessando ciò che è frutto dell'immaginazione di un regime ossessionato da un lato dal senso di inferiorità verso l'alleato sovietico, e dall'altro verso un diffidente occidente.
Ripercorrendo l'agghiacciante storia, attraverso la lettura di quello che può essere definito un vero e proprio diario, emerge da un lato il forte senso di supremazia del popolo cinese rispetto al "nemico", identificato in tutte quelle popolazioni ostili ed avverse alla rinnovata politica cinese, dall' altro la speranza, comune a molte popolazioni che hanno visto il susseguirsi di governi come narra il romanzo "il cacciatore di aquiloni" o mille splendidi soli", che il cambiamento possa solo "migliorare le situazioni attuali di un paese", cosa, che poi in seguito ed in molti casi, risulterà irrealizzabile.


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